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19/01/17

“Quando cadono le stelle” il libro di chi ha letto un milione di libri.









Se dovessi racchiudere in un claim il primo romanzo di Gian Paolo Serino, ruberei il versetto a: La storia siamo noi di Francesco De Gregori, …”quelli che hanno letto un milione di libri e quelli che non sanno nemmeno parlare..” perché sarei certo di descrivere, senza inutili virtuosismi lessicali, il succo delle storie degli uomini illustri che Gian Paolo Serino ha voluto raccontare in Quando cadono le stelle.
 Lui che un milione di libri li ha letti per davvero e li ha assorbiti, li ha bevuti, li ha recensiti, li ha odiati e stroncati e quelli che ha amato li ha consigliati, non poteva certo tradire il lettore con una storia banale, una scrittura falsa e un tono pretenzioso, e non lo ha fatto. Anzi, ha messo in campo una scrittura agile, fluida, avvincente e sincera, modulata con l’esperienza del lettore vorace, avido e instancabile che alberga in lui da secoli.
Per cui è stato un vero spasso leggere delle pene d’amore di Salinger, e credere, proprio grazie allo stile frizzante utilizzato da Serino,  che fosse il Giovane Holden a parlarcene, o leggere dei fantasmi dell’alcol che perseguitano Edgar Allan Poe in una serata londinese buia e tempestosa, o leggere della vita ordinaria dell’impiegato Franz Kafka tra la società di assicurazione e un colorito bordello praghese; o leggere ancora della sorella scema dei Kennedy, rinchiusa in manicomio e dimenticata; o del dramma di Heminghway che si traveste spesso da donna per compiacere una madre matta che avrebbe voluto una femmina.
 E via di seguito, in una sorta di smitizzazione di personaggi noti, di quelli che noi chiamiamo “stelle” appunto, che brillano in pubblico e si spengono in privato:
  Serino squarcia così il velo di Maya sotto cui si nasconde la nostra vera essenza di esseri umani fragili e imperfetti, ci mostra il dietro le quinte, le miserie, l’acqua sporca dell’anima dei miti della pittura, della letteratura, della politica, del cinema e via giù a raccontarci ancora di Picasso e della sua vanagloria, o di Cary Grant e la sua violenza incontrollata verso le donne: stelle che cadono appunto, personaggi baciati dal successo e tuttavia tormentati dalla vita come tutti noi, a dimostrare che la genialità, l’arte è solo un lampo che ogni tanto ci colpisce e ci rende grandi agli occhi altrui, ma quando i riflettori sono spenti la vita riprende a sgranare il suo rosario di penitenze quotidiane, cosicché le vite delle stelle non sembrano poi diverse dalle nostre, e questo un poco ci consola.


                                                                                                                             Giuseppe Marotta
Quando cadono le stelle
Baldini e Castoldi                                                
euro 15
220 pag.


22/05/16

Sono una donna, non sono una santa.



  Il titolo del post non è casuale: quando leggo un libro, giunto alla parola fine mi appare un'immagine, un ricordo, una strofa di una canzone a rappresentare la storia appena letta. E così è accaduto per La leggenda di Bella Speranza di Roberto Alba, scrittore dal passo frizzantino, capace di strappare risate fragorose con due parole messe insieme e un aggettivo appropriato. 
  Autore, Roberto Alba, non dimentichiamolo di quel gioiellino di romanzo - L'estate di Ulisse Mele - che ancora galoppa felice sugli scaffali delle librerie nazionali.      



   Giannetta è la santa patrona di Bellu Prèssiu, paesino aspro di Barbagia o giù di lì, il luogo in cui si svolge la nostra storia, e Giannetta è anche il nome della moglie di Amedeo Leccis, detto conte di Buon Cammino, il quale, sventura sua, avendo sposato appunto una donna, ma non una santa si trova costretto a dover difendere l'onore tradito dalla moglie fedifraga e si becca trent'anni di galera. 
   È un barbiere, Amedeo Leccis, quando la vita decide di tirargli il pugno nello stomaco: una mattina nella sua barberia a San Gaggio in Toscana si accomoda, per una rasata veloce di barba, un bischero di rubacuori, un misero play boy di paese che tra una parola e l'altra inizia a vantarsi col povero Amedeo di una signora, dalle forme felliniane, che aveva conosciuto, di come fosse spettacolare in ogni suo gesto amoroso, di come fosse capace di risvegliare ogni istinto, anche i più profondi, che si nascondono nella bestia che c'è in noi, e soprattutto di come fosse economica. Una bagassa, insomma... E Amedeo, barbiere pettegolo indaga, sollecita informazioni ulteriori: la notizia è di quelle ghiotte, che meritano attenzione. Ne avrà da raccontare ai prossimi clienti, si rallegra Amedeo, dirà loro di questa signora economica, dalle forme prosperose, e ne chiede il nome. E il misero sciupafemmine, poco galantuomo, sputa la sentenza senza pietà: Giannetta, si chiama la maiala, abita dopo il ponte, in via degli Asperoni, numero cinque. Ed è qui che Amedeo sussulta: Giannetta è sua moglie e quella è casa sua. 
Ora immaginate il barbiere con in mano il rasoio e lasciate spazio alla fantasia. ...Sono salito fino alla base dell'orecchio e, zac, con un colpo secco l'ho staccato di netto. E poi non ci ho visto più e sono arrivato fino alla gola... racconta Amedeo a Don Smurza, parroco manesco di Bellu Prèssiu. 

   Come abbia fatto Amedeo, condannato a trent'anni di galera a ritrovarsi poi a Bellu Prèssiu ce lo racconta Roberto Alba, con la sua scrittura brillante, attraverso pagine in cui scorrono fiumi di Bombannau servito con pane carasau e vermetti teneri e bianchi che sguazzano nel formaggio più buono che io abbia mai mangiato in Sardegna.
  È un paese che merita di essere scoperto Bellu Prèssiu, un deserto di sassi e rocce granitiche, bianche come sudari. Un paese in cui non ci sono soldi, ma pille che ognuno stampa all'occorrenza: è tutta una finanza creativa in quel borgo: da matti, diremmo noi. E invece no, perché a Bellu Prèssiu, la gente vive serena, e talvolta si diverte. Le tasse le chiama condoglianze e il denaro, su paperi de su dimoniu.  Del resto ci divertiremmo anche noi se avessimo amici come il Cozzina, dall'intelligenza paragonabile a quella di una gallina ipnotizzata, oppure il Profeta, costantemente posseduto da visioni mistiche, o Agamennone, che gira sempre in motocarrozzella, o il Pompa, che gestisce un distributore di benzina, ritrovato una mattina nudo e privo di sensi, oppure il Mitraglia, balbuziente e incapace di formulare qualunque frase di senso compiuto. Ci divertiremmo eccome, con un'allegra compagnia così conciata. E soprattutto andremmo anche noi, ne sono convinto, all'assalto degli invasori, perché a Bellu Prèssiu, il tempo si è fermato, e qualcuno ogni tanto lancia ancora l'attacco al grido "via i Savoia dall'isola".
  E la copertina del libro, con i quattro teschi con un occhio bendato, la dice lunga sul profumo di libertà, di autonomia, di giustizia che aleggia tra le pagine di tutto il racconto, pagine che sveleranno infine un segreto custodito nel recinto delle magiche pesche, posto al centro della piazza di Bellu Prèssiu che per gli stranieri vuol dire appunto, Bella Pesca, e per i prescelti, Bella Speranza.   

Giuseppe Marotta

La leggenda di Bella Speranza
di Roberto Alba
edizioni La Zattera
153 pag.
€18,00




 






   


09/11/15

Una recensione davvero gradita



A due anni di distanza, il mio primo romanzo raccoglie ancora consensi.





Su sololibri.net la recensione entusiastica di Claudia Graziani

19/07/15

Una recensione autorevole







il professore Bruno Capponi, ordinario di Diritto processuale civile della Luiss Guido Carli, è un profondo conoscitore della materia, insegna tra l'altro Diritto dell'esecuzione, e la sua analisi di SFRATTATI non poteva non essere impeccabile. 



11/04/15

SFRATTATI, il libro del giorno di Roberto Saviano




"Di fronte ad affitti non versati e cambiali non pagate, di fronte alla disperazione e ai fallimenti lui non si ferma e "rovista nella sporcizia delle vite altrui". È l’aquila nera di cui Giuseppe Marotta scrive in “Sfrattati” (Corbaccio bit.ly/sfrattati). Sfrattati è un libro che leggo e rileggo perché mostra come la crisi che porta via tutto, ci lascia almeno questo: la possibilità di essere umani." Roberto Saviano


02/12/14

Io sono lo straniero




   Colgo l'occasione dell'ultimo premio ricevuto dal secondo romanzo di Giuliano Pasini per parlare di Io sono lo straniero
   Il Premo Romiti è un premio assegnato da una giuria di poliziotti e immagino che non sarà stato difficile per loro assegnargli l'ambito premio, perché Roberto Serra, il commissario protagonista dei due romanzi di Pasini, l'altro è Venti corpi nella neve, ha tutto il fascino del poliziotto bohémien, tormentato e sofferente, frugale e controcorrente: non guida la macchina, non ama il computer, cucina da Dio, corre di notte e non rispetta le procedure quando insegue un assassino. E un commissario così non si può non amare. Lo sa bene Alice, fidanzata storica, che lo lascia spesso per poi accorgersi che senza di lui non può stare a lungo. E lo sa Susana, la ex prostituta brasiliana, che corre ogni tanto a riscaldarsi tra le sue braccia.
  Si è rifugiato a Termine questa volta Roberto Serra, che"non è un paese, ma un incrocio tra i vigneti" ed è lì, tra le colline del Prosecco, a Valdobbiane, a San Pietro di Barbozza, Guia, Col San Martino che si dipana la storia. Siamo nella provincia trevisana, tra le più ricche e industrializzate d'Italia. Province che spesso mugugnano contro gli stranieri, quelli "de fora fora": gli extracomunitari. 
  Pasini è bravo ad aprire la scena e già dalle prime righe siamo dentro il delitto. Una ragazza bionda che cammina da sola, nel buio della sera, lungo una stradina che costeggia il retro della stazione. Un rumore alle spalle e il cuore che scoppia. La ragazza bionda si gira di scatto: nessuno, solo nebbia. Si dà della stupida e continua la marcia. Ma dalla nebbia sbuca una mano che le chiude la bocca e inizia la lotta. L'uomo che l'ha agguantata è forte, la tira a sé. La ragazza sente il suo odore di sapone, di pulito. Ma è solo in superficie, perché "sotto c'è l'afrore della bestia che sta per sbranare la preda". E la bestia bisbiglia, ripete qualcosa a mezza bocca prima di infilarle un ago nel collo: la ragazza bionda si accascia, e tra la nebbia che la invade lentamente scorge il passamontagna dell'uomo "da cui spuntano gli occhi azzurri, febbricitanti, eccitati."
Quando si sveglia la ragazza è sul letto del laboratorio. Odore aspro di disinfettante, piastrelle azzurrine alle pareti. Una voce metallica la informa che: "nella stanza ci sono delle regole"
La ragazza è l'ennesimo "esperimento" del maniaco o dei maniaci. Chissà? 

 Inizia da qui la sfida di Roberto Serra. Una sfida che vorrebbe rifiutare quando Francesca, la compagna della ragazza bionda, gli chiede aiuto. Oramai non è più nel nucleo, da tempo. In quel nucleo che risolveva gli omicidi più difficili. Roberto è scappato lontano da Roma per guarire dalla "danza" che lo tormenta da bambino: da quando è sopravvissuto alla strage di mafia che ha ucciso suo padre, anch'egli poliziotto, e sua madre mentre erano in macchina con lui. È uno sconvolgimento delle viscere, la "danza": uno strazio. E da quando è poliziotto la "danza" lo coglie di sorpresa, davanti ai cadaveri, e lui rivive, tra le convulsioni, gli ultimi secondi di vita delle vittime. È così che spesso scopre gli assassini, ma ogni volta sembra di morire: perciò di delitti non ne vuole più sapere.  
Ha un ruolo tranquillo adesso, commissario capo dell'ufficio immigrazioni della questura di Treviso.
Di sera si diletta a cucinare nel ristorante di Alvise, un rockettaro che gira in Harley Davidson, che ama il Faber, vota Lega e ha gli occhi azzurri e per questo finirà tra i sospettati.

Ma Francesca insiste. E poi è una ragazza sola, persa, disperata: una famiglia distrutta da una tragedia che Roberto scoprirà, ancora una volta, grazie alla "danza". Francesca insiste, gli racconta che a Treviso e dintorni sono scomparse altre ragazze, tutte straniere: cinesi, africane, russe, come la sua Elena che era arrivata dalla Bielorussia alla ricerca di una vita migliore, di un futuro, di un sogno. Ragazze che nessuno cercherà più. Ragazze "de fora" straniere, come si sente Roberto in quei luoghi.
A chi interessa cercare ancora quelle ragazze? 

   Inizia così la sfida di Roberto. Lentamente. Tra gli umori xenofobi della provincia benestante. Solleva il tappeto, il commissario Serra, e scopre tutta l'immondizia nascosta dietro il perbenismo di una città, Treviso, che ancora non riesce a confrontarsi con "lo straniero che distrugge il sistema in cui è entrato".
Le indagini ci porteranno nelle acque scure dei laghi di Revine che restituiscono i corpi di quattro donne e otto feti e nei locali fumosi di ridicoli campanilisti che inneggiano al "Veneto Nation"- 
La tematica affrontata da Pasini è attuale e per questo il romanzo merita la lettura. Si comprenderà come l'idea del male possa attecchire anche nelle menti più istruite. Come a volte il passato tragico che abbiamo vissuto sia ancora dietro l'angolo ad attenderci, pronto a riproporsi in tutta la sua atrocità.
Ed è anche per tutto ciò che la giuria del Premio Romiti ha deciso per la sua vittoria
"riconoscendogli di aver presentato, in un testo scorrevole, un intreccio avvincente in cui emerge il lato umano dell'investigatore protagonista, capace di ricorrere a tecniche investigative vicine alla realtà."


TitoloIo sono lo straniero
AutorePasini Giuliano
Prezzo
Sconto -15%
€ 13,52
(Prezzo di copertina € 15,90)
Dati2013, 392 p., brossura
EditoreMondadori  (collana Omnibus)








05/01/13

In viaggio con...Roberto Alba





 La spiaggia delle Anime

  E non avrei potuto dare un titolo diverso a questa recensione, perché il romanzo di Roberto Alba, La spiaggia delle anime, è davvero un viaggio, o meglio, è l’insieme di tanti viaggi.
E’ un viaggio su un’isola incantata e misteriosa. E’ un viaggio nel tempo e nello spazio. Ed è poi un viaggio nei sentieri angusti della memoria che si stende come un lenzuolo bucato lungo la piana della vita.
E bucata è la memoria di Valerio, single convinto e donnaiolo per necessità, avvocato matrimonialista con un senso di inquietudine appiccicato addosso da secoli. Un’angoscia che lo affligge e che lo spingerà, nell'agosto del 2009, a mettersi in viaggio verso Rodi, isola incantata e misteriosa in cui crede di ritrovare la propria terra e la sua vera madre. 
Ma agli scherzi che possano farci i ricordi non ci abitueremo mai.
 E vorremmo almeno sapere quanti, e soprattutto di chi siano questi ricordi che riaffiorano improvvisi, che ci prendono allo stomaco e lo strizzano e ci catapultano laddove forse non siamo mai stati: in un'altra epoca, in un'altra città. Scene mai vissute che tuttavia portiamo dentro riemergono inaspettate da un profumo, da un rumore, da un colore o da un semplice squarcio offerto da una finestra che abbiamo tentato di scavalcare da bambini per scoprire cosa ci fosse nel giardino di fronte. Oppure, li ritroviamo in una stanza di un ospedale dove non siamo mai stati, o forse ci siamo stati da bambini, chissà. Quei luoghi sconosciuti che si rivelano di colpo familiari; quei luoghi che, a fissarli, ci angosciano così tanto, in un passato lontano, non forse noi, ma i nostri avi li avranno certamente abitati.
E noi chi siamo, se non il frutto di quel che ricordiamo? 
E non importa se sono i nostri ricordi o quelli dei nostri antenati: “siamo nani sulle spalle di giganti” scrisse Bernardo di Chartres, e il romanzo di Roberto Alba sembra mantener fede a questo concetto come se ci fosse un parallelismo tra le esperienze e i ricordi dei nostri antenati, i giganti appunto, sulle cui spalle forti sediamo noi, i nani, che proprio grazie a quelle esperienze dovremmo avere un vista più lunga.   
 Esperienze e ricordi che in fondo sono la stessa cosa: vuole confermare tutto ciò, Roberto Alba, e vuole dirci che i nostri ricordi affiorano improvvisi e ci spingono ad agire, e magari ogni nostra azione, ogni nostro progetto forse è mosso proprio da quei ricordi nostri e non. Ricordi che si fondono oggi in noi e domani si fonderanno nei nostri discendenti; ricordi ed esperienze che tutto sommato ci appartengono: siamo quello che sono stati i nostri antenati.  
   E a sostenere ciò non vi è solo la frizzante fantasia dell’autore il quale ci tiene a chiarire che vi sono studi solidi della ricercatrice Anne Ancelin Schutzenberger, la quale nel suo saggio, La sindrome degli antenati, ha spiegato come alcuni suoi pazienti abbiano acquisito paure all’apparenza irrazionali, difficoltà psicologiche o fisiche scoprendo e cercando di comprendere i parallelismi tra la propria vita e quella dei loro avi.

   Sono quindi tutti in viaggio, anche gli altri personaggi de La spiaggia delle anime: un mozzo giovane e belloccio, un conte dal piglio deciso, un marchese allupato, una marchesa pruriginosa, un pittore falso e cortese, un medico serioso, una contessa ambigua e altre comparse di sostegno: sono in viaggio su un veliero verso Lindos, incantevole spiaggia di Rodi, nel 1938. E sono lì, nel porticciolo, a bordo del Principessa Margherita I quando accade il fattaccio: un colonnello della Regia Aeronautica Italiana è stato assassinato in una stanza d’albergo dell’isola e con lui è scomparsa anche una borsa contenente documenti militari di rilevanza strategica notevole: siamo a un passo dalla seconda guerra mondiale. Qualche anno prima, nel 1934, il premio Pulitzer H.R. Knickerboker, in un suo libro inchiesta, edito da Bompiani, si chiedeva: Ci sarà la guerra in Europa? Ci sarebbe piaciuto rispondere di no, ma già all’epoca appariva evidente l’approssimarsi del conflitto. 
La finzione del romanzo parte da qui, da quella borsa sparita dalla camera d’albergo dell’ufficiale italiano ucciso e ricomparsa sul veliero insieme a un nuovo ospite, un agente della polizia segreta fascista, il quale era riuscito a recuperare la borsa contenente i documenti che avrebbero potuto condizionare le sorti dell’imminente conflitto bellico. Quelle informazioni sarebbero state utili ai tedeschi e per tale ragione dovevano essere strettamente protette. E i viaggiatori del veliero ce la metteranno tutta per proteggerla, affronteranno bufere e naufragi, sommergibili nazisti e omicidi cruenti, sfideranno luci misteriose che affiorano improvvise dalle acque e malattie virali insidiose che li condurranno alla morte.
Saranno loro le anime che naufragheranno sulla spiaggia che dà il titolo al romanzo. Saranno loro che riverseranno i loro ricordi e le loro anime nelle acque splendide dell’isola incantevole e misteriosa dell’Egeo.
Quarant’anni dopo, nel 1978, i ricordi di quelle anime saranno ancora lì in quelle acque ad attendere Carlo e Luisa, coppia in crisi che in quel viaggio tenterà di riconciliarsi. Ce la farà? Cosa accadrà a loro due su quella spiaggia in apparenza deserta? Roberto Alba ce lo racconta con una scrittura fluida e consistente, una scrittura che ti fa appassionare, perché la senti vera e probabile. E quando nel finale rincontreremo Valerio, il single convinto, partito alla ricerca di sé stesso e della vera madre ci piacerà scoprire come a volte le nostre angosce non ci appartengano affatto.
Buon viaggio!

Giuseppe Marotta



 La spiaggia delle anime - Gremese editore - collana CRIMEN  €.7,90  - 181 pag

17/10/12

La nostra Africa - di Michelangelo Bartolo







Cronache di viaggio di un medico euroafricano


         
        “…Enormi baraccopoli sembravano galleggiare nel fango. Lungo la strada molti bambini giocavano e si rincorrevano in grandi pozzanghere usate a mo’ di piscina. Li guardavo attonito: si schizzavano l’un l’altro, scherzavano, urlavano divertiti. Le strade, a tratti dissestate, accoglievano un traffico disordinato, talvolta paralizzante. A ogni semaforo, frotte di bambini chiedevano l’elemosina. Una macchina con un bianco a bordo non passava inosservata e tante mani bussavano e si appoggiavano ai finestrini del fuoristrada. L’impronta delle piccole mani rimaneva impressa sul finestrino per qualche secondo, poi nuove lacrime di pioggia percorrevano velocemente il segno delle cinque dita e facevano scomparire l’immagine in breve tempo.…” 


  Inizia più o meno così il romanzo di Michelangelo Bartolo. E più che un romanzo, mi piacerebbe definire “La nostra Africa” un urlo gioioso di speranza. La conferma che nulla sia perduto quando la sapienza degli uomini si pone al servizio degli ultimi. Tende loro la mano e riceve in cambio un sorriso. “La nostra Africa” è il racconto di una scintilla che propaga il fuoco dell’amore. E non ho timore di scriverla questa parola, Amore, nel recensire un romanzo; questa parola, Amore, che spaventa gli uomini poveri di spirito. Questa parola, Amore, qui da noi così abusata, ne “La nostra Africa” ritrova il suo significato vero, universale: ama il prossimo tuo come te stesso! Perché in fondo è l’Amore l’unico sentimento che sorregge tutto il romanzo. E non vi è nulla di clericale in tutto ciò. Se si decide di partire per il Mozambico, "uno dei Paesi più poveri del nostro pianeta. Dilaniato da una guerra civile durata sedici anni", e restarci tutto il tempo che occorra per avviare un nuovo programma di cura e prevenzione dell’Aids, lasciando a casa moglie e figli, non vi è che l’Amore a spingerci fin laggiù. Null’altro che l’Amore.

   
   Ci sono romanzi che ci scuotono, che mettono a nudo le nostre pigrizie, le nostre piccole miserie, i nostri egoismi. “La nostra Africa” riesce in questa impresa e ci scaglia lontano, laddove la sofferenza è vera e la morte dei bambini per Aids è una presenza quotidiana che non lascia scampo. E Michelangelo laggiù ha combattuto la sua guerra contro la burocrazia per sdoganare un container di materiale sanitario, in arrivo dall’Italia; ha combattuto contro la penuria di mezzi, contro la scarsità di cibo, acqua e medicinali, e contro lo scoglio linguistico del suo portoghese smozzicato. Ha cercato collaboratori tra la popolazione locale e li ha formati. Ha incontrato ambasciatori italiani preoccupati. Ha firmato accordi con i Ministri della Salute del Mozambico e della Tanzania al fine di ottenere autorizzazioni e fondi per metter su gli ambulatori. I fondi che non bastano mai. E fa rabbrividire ascoltare, oggi, dello spreco di denaro pubblico perpetrato dai vari gruppi politici che siedono nei nostri Consigli regionali.

  Avevo già letto “La nostra Africa” prima che fosse pubblicato, in quanto finalista al Torneo "Io scrittore 2011" indetto dal Gruppo Editoriale Mauri Spagnol, ed era stato il mio voto più alto. E non a caso, quando poi è stato pubblicato in ebook, ha scalato le classifiche senza difficoltà: era una testimonianza di vita vissuta con coraggio e passione che meritava di essere raccontata e premiata.
 Oggi l’ho riletto con piacere e con piacere ho rivissuto le avventure di un medico euro-africano, come ama definirsi Michelangelo Bartolo, medico angiologo, partito da Roma per Maputo, e lì fermatosi per avviare il programma sanitario DREAM, (Drug Resource Enhancement against AIDS and Malnutrition) della Comunità di Sant’Egidio.

   DREAM che in inglese vuol dire, sogno, grazie a Michelangelo Bartolo e ai suoi collaboratori oggi è una realtà che ha già curato 180.000 persone di cui 28.000 minori di 15 anni; 17.200 bambini nati sani da madre HIV positiva; 1.100.000 persone che, in vari modi, hanno usufruito del programma e ha effettuato un milione e 400 mila visite mediche. Il programma DREAM oggi è diffuso in Mozambico, Malawi, Tanzania, Kenia, Repubblica di Guinea, Guinea Bissau, Camerun, Congo RDC, Angola e Nigeria. Da quando è stato avviato sono stati attivati 33 Centri DREAM; 20 laboratori di biologia molecolare; 6 centri di telecardiologia; 18 corsi di formazione per 5700 professionisti africani.  E i fautori del progetto non hanno intenzione di fermarsi.

  Nella prefazione del romanzo, Roberto Gervaso definisce Michelangelo Bartolo il nuovo dottor Schweitzer, e non esagera. Feci anch’io lo stesso accostamento quando lessi il romanzo, durante le fasi del Torneo. Mi venne in mente il dottor Schweitzer, appunto, mentre curava i lebbrosi a Lambaréné e mi venne in mente Dominique Lapierre de “La Citta della Gioia.” Ed è la gioia che traspare in molte pagine del romanzo. La gioia di far nascere bambini sani da madri HIV positiva; la gioia di rivedere, dopo alcuni mesi, correre sorridente un ragazzo trasportato in ambulatorio, in fin di vita, su una carriola; la gioia di ascoltare le parole di ringraziamento di Albert che rivolgendosi a Michelangelo Bartolo con voce tremolante dice: “il mio nipotino non cresceva, era magrissimo, aveva sempre la febbre, non riusciva a ingoiare più niente. Mia figlia era morta e attendevo che anche lui morisse” Fa una lunga pausa, riprende fiato e aggiunge: “Dopo pochi mesi di cura, di cura costante, ha iniziato lentamente a migliorare. Io non ci credevo, non era possibile. Ora è cresciuto, sta bene, è risorto, guardatelo!” E fa cenno al nipotino di alzarsi in piedi e mettersi nel centro della stanza. “Non è un bellissimo bambino? L’ho iscritto a scuola e ha un futuro come gli altri bambini. E anch’io, ho trovato un motivo per continuare a vivere. Grazie a tutti quelli che ci portano le cure”.
   
    Si sente l’Africa pulsare in queste pagine, si sente la fatica degli uomini che tentano di alleviare il dolore altrui, si sente l’impegno profuso e soprattutto si sente la determinazione a portare avanti la lotta contro l’AIDS nel continente africano, nonostante tutto.

Michelangelo Bartolo devolve i diritti d’autore del libro al programma DREAM, se potete acquistatene una copia, contribuirete a una giusta causa. 
Anche questo, in fondo, è un gesto d’Amore.

Giuseppe Marotta  


La nostra Africa. Cronache di viaggio di un medico euroafricano -  di Michelangelo Bartolo -

Gangemi editore 297 pag  €. 25,00  

per acquistarlo: 

http://www.ibs.it/code/9788849223897/bartolo-michelangelo/nostra-africa-cronache-di.html

 GUARDA IL VIDEO : 

http://www.adnkronos.com/IGN/Mediacenter/Video_News/Il-medico-euroafricano-Michelangelo-Bartolo-racconta-la-sua-Africa-in-un-e-book_313162062417.html

VIDEO 2


29/05/12

UN POSTO MOLTO LONTANO DA QUI di Carlo Deffenu



Un giorno ci rincontreremo tutti.


   La prima parola che mi è venuta in mente per iniziare a scrivere questa recensione è stata “fotografie”.  “Un posto molto lontano da qui” è un romanzo pieno di fotografie, non di quelle stampate o incollate sulle pagine come in un album, tanto per intenderci, ma fotografie intese come scene folgoranti descritte con pennellate leggere fuoriuscite dalla penna acrobatica di Carlo Deffenu.
   Non vorrei sperticarmi nell’elogio gratuito del romanzo, ma posso dire, senza enfasi alcuna, di aver trovato “Un posto molto lontano da qui” oltre che un romanzo solido, un buon romanzo sulle nostre paure e sulle nostre sconfitte. Sulle paure che s’insinuano in noi da bambini e che ci tiriamo dietro per un bel po’ di anni scoprendo alla fine che sarebbe opportuno più che combatterle, imparare a conviverci con certe paure. E sulle nostre sconfitte, di quelle che quando ti colpiscono ti scagliano altrove, in un posto molto lontano da qui, appunto, come palline di un biliardo colpite con violenza da quel giocatore esperto che si chiama vita.
   Il romanzo si apre con una fotografia: una bambina che immagina la dinamica di un suicidio realmente accaduto nel luogo dove lei si è fermata ad osservare "quel mazzo di rose bianche e due lumini rossi che continuano a bruciare mestamente" lasciati da chissà chi.  Quella bambina è Danette, che sembra “un manga senza sorriso” e di cui scopriremo le paure. Paure che nascono per l’assenza di un padre, militare in Afghanistan, a sua volta prigioniero delle scene di guerra che si porta dentro anche nei giorni di licenza che trascorre accanto alla figlia.
  Sono quasi tutti così i personaggi che Deffenu mette in scena in questo suo romanzo, personaggi che devono fare i conti con i propri fantasmi, e per questo appaiono veri, familiari. Come Denis, quindicenne, provato dalla brutta esperienza di essere rimasto per tre notti prigioniero in una buca in cui accidentalmente è caduto qualche anno prima. Tre giorni con i piedi nel limo e con le mosche, a migliaia, che gli ronzano sulla faccia e che “si passano la voce nei campi e si raccontano che c’è  un bambino prigioniero in un buco profondo, un posto ideale per banchettare indisturbate.” Le odierà così tanto quelle mosche Denis che, una volta libero, inizierà a collezionarle imprigionandole nei barattoli di vetro.
  E che dire di Dumas, preso a calci dalla vita. Dumas che perde la donna amata in un incidente stradale e non si raccapezza più. Così parte alla ricerca di qualcosa che lo aiuti a lenire quel dolore. E sarà solo in un posto molto lontano da qui che alla fine, Dumas, riuscirà a trovare la sua patria. E mentre cerca quel posto, Dumas scatta fotografie: fotografie di luoghi in cui è stato felice con Dora, fotografie di luoghi in cui è stato bambino, a testimoniare un’altra vita prima di quel dolore, e struggente è la scena del suo ritorno nella casa d’infanzia: “Rivede il volto tondo di sua madre affacciato alla finestra, i capelli scuri raccolti sulla nuca, le braccia robuste conserte sul davanzale.” E il lettore la vede quasi materializzarsi sulla pagina, quella madre. Una fotografia appunto: lì davanti a lui.
E poi c’è Polar che viene da lontano, che ha abbandonato la sua Polonia e adesso vive senza un soldo e con tre cani mendicando qualche spicciolo agli incroci dei semafori della città. E ci rimarrà, su quelle strade, fino a quando non giunge inaspettata la sorpresa finale che Dumas ha preparato per lui, prima di andarsene altrove. Polar che nella sua terra era un professionista affermato, un giorno commette l’errore che nessun padre vorrebbe commettere, l’errore che non ammette appello e allora decide di andare, partire, decide di abbandonare tutto per espiare la sua colpa, se di colpa si tratti. Ma di ciò, lasciamo al lettore il gusto della scoperta. Tuttavia soffrire in Terra, senza darsi la morte, può essere un modo onorevole per espiare la propria colpa.
  Alla fine il cerchio si chiude, perché il filo sottile che lega i personaggi tra di loro c’è, e resiste agli eventi. Per Danette, che durante tutto il romanzo combatte la sua guerra con le paure che terrorizzano tutti i bambini, Denis è diventato il supereroe che la difenderà per sempre dall’ombra che cerca di entrare nella sua camera. E Denis, grazie a un regalo di Dumas, saprà come tenere a bada quell’ombra cattiva che insidia la sua principessa.
  Gli elementi fantasy non mancano nel romanzo, ma ho apprezzato l’uso parsimonioso che ne fa l’autore, il quale non eccede in diavolerie superflue che nulla avrebbero aggiunto alla storia. Il finale è di quelli che scaldano il cuore e lasciano spazio, giustamente, alla speranza: un giorno, in un posto molto lontano da qui ci rincontreremo tutti. Si spera.
Buona lettura.

Carlo Deffenu

Un posto molto lontano da qui  

       (edizione ebook)

EDITO DA:Io Scrittore

PREZZO:4.99 € 



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03/03/12

VENTI CORPI NELLA NEVE di Giuliano Pasini (Time Crime)










Il segreto di un successo.

   In genere non leggo thriller per cui ho affrontato questo romanzo come quando ci si tuffa in una piscina: sai già che almeno per le prime due vasche l’acqua sarà fredda. Dalla terza in poi, il corpo inizia ad abituarsi alla temperatura dell’acqua e senti di potercela fare per almeno quaranta vasche ancora. Ed è stato proprio così con il romanzo di Giuliano Pasini: per le prime venti pagine circa ho annaspato cercando di collocare i personaggi e le azioni nella mente. E’ un thriller, mi son detto, per cui mi tocca memorizzare ogni indizio che l’autore ha seminato lungo il tragitto, non posso mica arrivare alla fine e chiedermi perché l’assassino era proprio quello lì e non un altro? Sembra un’osservazione stupida lo so, ma si da il caso che io non legga thriller proprio per questo: non mi va di memorizzare indizi e personaggi in ordine di apparizione.
Così alla fine ho deciso che, VENTI CORPI NELLA NEVE, per me non era un thriller e in quanto tale potevo leggerlo senza preoccuparmi di capire o meno chi avesse ucciso chi. 
Ovvio che alla fine tutto mi è stato chiaro, e la scrittura, senza troppi fronzoli, mi ha aiutato molto nella comprensione della trama. Sinceramente non so se lodare la bravura di Pasini quale autore di thriller, lascio il giudizio ai lettori del genere, più esperti di me. Io posso dire che apprezzo i romanzi quando alla fine mi hanno trasmesso qualcosa e su questo, Venti Corpi nella Neve, non mi ha deluso. E non perché il commissario Serra, ogni tanto, si mette a danzare, e grazie alla danza da un colpo in avanti alle indagini. E quando leggerete il libro capirete che la danza del commissario Serra è una danza che ha radici lontane, e per certi versi interessanti, ma per quanto mi riguarda poteva anche non danzare: il mio giudizio positivo su questo romanzo sarebbe rimasto uguale, perché, a mio avviso, Giuliano Pasini, ha saputo collocare, con estrema precisione, una "piccola" tragica storia nella grande ruota della Storia.
  E il segreto del suo successo è tutto qui.

Case Rosse, il più piccolo commissariato d’Italia diretto da Roberto Serra, da Roma. Uno di fuori. Uno che a Case Rosse, paesino diroccato sull’appennino tosco-emiliano, sospeso tra Modena e Bologna, è guardato con diffidenza. Da anni non accade più nulla a Case Rosse, da tanti anni. Dal 1945 quando, durante la Seconda Guerra Mondiale, proprio da Case Rosse, passava la Linea Gotica battezzata così dai tedeschi, che lungo la trasversale appenninica, che si stendeva da Massa Carrara a Pesaro,  avevano concentrato le loro truppe con l’intento di fermare l’avanzata degli anglo-americani provenienti da sud. Due anni prima, in quelle stesse zone  erano state compiute, dai nazisti, le stragi e gli eccidi più cruenti: a Reggio Emilia, nel 1943, furono trucidati i sette fratelli Cervi; nel 1944 a Marzabotto una rappresaglia nazista causò la morte di 800 persone. E questa è la grande Storia in cui Giuliano Pasini è riuscito a collocare la sua "piccola" storia, ossia la fucilazione di venti persone, tra cui donne e bambini, avvenuta a Capodanno del 1945 per mano di Enrico Zanarini, detto il boia dell’appennino, fascista al quale i tedeschi hanno affidato il controllo di Case Rosse. A causare la rappresaglia un attentato, preparato da un gruppo di partigiani della zona contro carri armati e truppe tedesche di stanza a Case Rosse.
 Magistrali a mio avviso le pagine in cui entra in scena il professor Aldrovandi, autore di “Arrivano i lupi”, grazie al quale il Commissario Serra si calerà nella storia di quegli anni e comprenderà che quella certa ritrosia nei suoi confronti non è affatto una questione personale purtroppo, perché a Case Rosse, sebbene dopo quella strage sia piombato il silenzio, quei venti corpi non sono stati dimenticati.

VENTI CORPI NELLA NEVE 
di Giuliano Pasini   

Edizioni Time Crime pagg. 331 - € 7,70


17/11/11

"Infernapoli" di Peppe Lanzetta – (Garzanti)


                                                         
                                                         

     Le tre cose che più mi hanno colpito leggendo “Infernapoli” di Peppe Lanzetta sono state le descrizioni delle scene di sesso tra i due rampolli delle famiglie camorriste rivali; il disprezzo che Maria Luna, figlia minore del boss Vincent Profumo, protagonista del romanzo, nutre nei confronti del padre; e infine, le finestre narrative che si aprono improvvise su Napoli come scosse dal vento, finestre da cui Lanzetta riversa nel libro i rumori e gli umori della città mostruosa e ammaliante che non vuole risorgere.
Infernapoli non è Gomorra, e Lanzetta non è Saviano perché Lanzetta, a detta di Saviano, è stato il primo che ha messo le mani all’inferno ed è giusto riconoscergli il merito.
E quando leggi Infernapoli te ne accorgi che l’autore non ha solo messo le mani nel fango, ma ci ha lasciato l’anima. Te ne accorgi quando leggi le scene di sesso animale tra il bove di paese che schianta il suo nerbo indurito tra le cosce della ventenne Maria Sole, la prima figlia di Vincent Profumo. Te ne accorgi quando leggi il tema in classe di Maria Stella, in cui la ragazza urla rabbia e vergogna verso quel padre camorrista, che semina morte senza risparmio. E te ne accorgi quando leggi quegli squarci improvvisi di pensieri che Lanzetta semina nel suo romanzo, pagine apparentemente avulse dal contesto narrativo che, se ben sussurrate durante la lettura, rivelano tutta la loro forza aggregante, parole che diventano il collante che regge tutta la storia.
  Se si fermassero ad ascoltare il mutismo dei loro bambini, sembra ammonire Lanzetta, i papà camorristi avrebbero l’occasione per comprendere quanto dolore producono le loro imprese violente, avrebbero l’occasione per accorgersi dell’inferno che arde nelle anime dei loro figli. Ma Vincent Profumo non è certo un signore garbato che ama fermarsi ad ascoltare le ragioni degli altri, Vincent Profumo non ammette ragioni. E poi c’è Mao Tse Tung, il capo cinese della nuova mafia che avanza, che sta invadendo la zona della stazione di puttane con gli occhi a mandorla: la stazione è zona di Vincent Profumo, e da quelle parti non è ammesso invadere la zona altrui. Vincent Profumo intima al Cinese di cambiare aria, ma la nuova mafia non arretra e allora sarà guerra. E nella guerra si sa, tutti alla fine perderanno qualcosa, o più di qualcosa.
Perderà Vincent Profumo e perderanno i suoi scagnozzi, perderà il Cinese e perderanno i suoi occhi a mandorla. Ma su tutti, ancora una volta, saranno gli innocenti a perdere la loro partita più grande.


"Infernapoli" di Peppe Lanzetta (Garzanti) 264 pag. €.14,61

06/11/11

“La giustizia che cammina” di Giovanni de Filippo

“La giustizia che cammina” di Giovanni de Filippo (lulu.com)

 



   Non vorrei buttarla subito in politica, tanto meno sparare contro l'ambulanza che si sta portando via, speriamo in fretta, tutto il consiglio dei ministri. Ma dopo aver letto il saggio breve di Giovanni de Filippo, non posso esentarmi. Per cui mi tocca sparare contro l'attuale governo, campione del mondo delle riforme annunciate e mai attuate. Contro questo governo che inneggia alla separazione delle carriere dei magistrati come se fosse la risoluzione di tutti i mali della giustizia italiana. Come se al cittadino, che pretende processi in tempi ragionevoli, certezza nel recupero dei crediti e liberazione immediata di un proprio immobile locato a un inquilino moroso, interessi sapere se chi lo giudica sia stato prima un pubblico ministero o un giudice a latere.
Bah!
  Ne "La Giustizia che cammina" Giovanni de Filippo si è assunto l'onere di ricordare al governo che ben altre sono le riforme necessarie se si vuole innalzare il livello di qualità del servizio giustizia in Italia. Ben altre sono le strade da percorrere. Una tra queste: la riforma dell'ordinamento dell'ufficiale giudiziario. Ennesima riforma annunciata e mai attuata.
Chi, per sua fortuna, non frequenta tribunali, a sentir parlare di ufficiale giudiziario, sono certo, sarà colto da un attacco di orticaria: "oddio l'ufficiale giudiziario, quello che sfratta le vecchine di ottant'anni e porta via i mobili di casa ai debitori; quello che ti cita davanti al giudice e ti manda le cambiali in protesto." E non è forse un caso, se nell'ultima manifestazione di Bologna, un gruppo di "indignados" ha preso d'assalto proprio la sede degli ufficiali giudiziari: se avessero letto il saggio di Giovanni de Filippo avrebbero compreso l'ingenuità di quell'azione. Ora non voglio scomodare Pasolini, che l'aveva vista lunga nel celebre discorso dopo gli scontri di Valle Giulia, quando si schierò coi poliziotti, figli di contadini, assaltati dagli studenti, figli di papà. Ma mi tocca farlo, affinché il bersaglio delle proteste sacrosante di questi giorni scaturisca da un'analisi seria dei motivi della crisi che ci attanaglia, e non sia frutto di
 luoghi comuni.
 
    Ne "La Giustizia che cammina" Giovanni de Filippo ci illustra pertanto in maniera dettagliata i motivi che dovrebbero spingere il governo, oggi alle prese con un faticoso risanamento di bilancio, ad attuare la riforma dell'ordinamento dell'ufficiale giudiziario: una riforma a costo zero che realizzerebbe un risparmio di seicento milioni di euro per le casse dello Stato e la creazione di undici mila posti di lavoro. Una riforma che velocizzerebbe i processi, il recupero dei crediti e la riappropriazione degli immobili locati agli inquilini sbagliati. Una riforma che darebbe impulso, vigore e la fiducia necessaria all'azione giudiziaria nel nostro Paese.
  Oggi per recuperare un credito in Italia occorrono 1400 giorni, in Guatemala 1450, in Francia 75 appena. Ed è per questo che occorre volgere lo sguardo oltralpe, suggerisce de Filippo al governo, se si vuole adottare una riforma seria e completa dell'ufficiale giudiziario che, come tiene a precisare l'autore, (attuale coordinatore degli ufficiali giudiziari del tribunale di varese n.d.r.) "...non è semplicemente colui che garantisce (o meglio dovrebbe garantire) l'esecuzione forzata in caso di inadempimento spontaneo, ma è colui che muove il mondo giuridico, che porta il diritto nelle case, nelle fabbriche, nelle amministrazioni. L'ufficiale giudiziario è, perciò stesso, il diritto che cammina...E chi meglio dell'ufficiale giudiziario può essere il portavoce del diritto? Egli è abituato da sempre a parlare con le persone di ogni ceto, spesso garantendo anche un semplice supporto psicologico a tutti coloro che affrontano un dramma umano". 
Altro che sfrattare le vecchine di ottant'anni.

"La Giustizia che cammina" di Giovanni de Filippo (Lulu.com)
132 pag. - ebook (PDF) €5,99 - edizione cartacea €13,98